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Volo dicere habes – Recensione

L’opera di grande bellezza e raffinatezza si leva dal piano in forma di dittico, conservando per un verso la  propria natura legata all’immagine di libro, dall’altra distaccandosene per il suo espandersi nello spazio, non più quello bidimensionale della pagina, ma  piuttosto quello esperienziale che muove  sensi  e  ragione.

In un continuum che si sposta da sinistra verso destra, dalla profondità in superficie e di qui si alza quasi in volute scultoree; nella perfetta commistione di parole e immagine, Elisabetta Necchio affronta il tema assegnatole mantenendone tutta la portata spaziale e temporale. La trasposizione artistica del vangelo di Luca, 4 “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo” riprende, nell’albero del Paradiso terrestre bello e luccicante nelle sue fronde a forma di labirinto, la radice di ogni tentazione,  “et eris sicut Deus”, quasi a volerne indicare matericamente la privazione che ne verrà. Ma l’albero  si allarga, nella seconda metà della composizione, nell’ ampia voluta  di un altro “albero”, fatto di rotoli. Rotoli della Sacra Scrittura, della parola di Dio inscritta nella storia dell’uomo. Quel “sta scritto”, inteso in senso generativo, perfettamente reso dal volgersi turgido della carta da cui sgocciolano scaglie dorate sul terreno che si prepara a germogliare. Sapientemente l’artista fa riferimento a un’altra fonte dell’Antico Testamento: Deuteronomio 8,  l’episodio della manna nel deserto, il cibo celeste che nutre il popolo in cammino verso la terra promessa, inteso a far comprendere concretamente e immaginificamente che l’uomo non vive di solo pane, ma di “quanto esce dalla bocca del Signore”.

Fra le parti della composizione sta lo spazio di una  banda che divide e, allo stesso tempo,  unisce il dittico, la libera scelta dell’uomo, espressa nel “volo dicere habes”, un monito essenziale che arriva fino a noi,  a cui non possiamo rinunciare pena l’essere schiavi di ogni frammentazione e idolatria.

Cecilia De Carli

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