Di Vittoria Coen
Quindici lavori di piccole, medie e grandi dimensioni, rappresentano il risultato di un impegno durato circa due anni, che ha origine da un suo breve soggiorno a Gerusalemme, in cui Elisabetta Necchio affronta un tema a lei caro da tempo, ma che oggi vede la luce attraverso un percorso di grande maturazione.
Il tema è quello delle tre religioni monoteiste Cristianesimo, Islam, Ebraismo, tema caldo oggi più che mai tanto da influenzare direttamente e indirettamente le nostre vite e i nostri pensieri.
Da spunti che riguardano la cultura e la vita dei popoli Elisabetta Necchio ha tratto ispirazione per una riflessione personale ed internamente maturata. Nove parole chiave dominano il percorso della mostra: RAGIONE, PADRE, MALE, TEMPIO, ALBERO DELLA VITA, LIBRO, PROMESSA, UOMO, TERRA.
Il risultato è un viaggio introspettivo molto accurato. Un viaggio con la carta, medium particolarmente amato dall’artista, arricchito da un cromatismo efficace e da una sempre più attenta cura dei particolari.
I soggetti delle opere sono chiari e identificabili, ma nello stesso tempo l’effetto generale pare quasi aniconico, per una sorta di “velatura” del colore che abbraccia l’intero supporto. In una Menorah declinata in Albero della vita, ad esempio, l’impaginazione, la spazialità, il segno, fanno parte di un unicum e regalano un senso di sospensione spirituale al lavoro che assume toni di spirito orientaleggiante.
Anche il Nodo di Salomone si accende di luce nel gioco labirintico dei segni, mentre i rotoli della Torah aggiungono vera tridimensionalità all’opera arricchendo lo spazio perimetrale con un vortice di carte.
In queste opere, dunque, i simboli diventano oggetti tangibili, mentre agli oggetti che rappresentano non viene tolto alcun senso distante dalla realtà. Il messaggio è chiaro: legare questi simboli in una rappresentazione che sia un inno alla pace, alla pace interiore di ognuno di noi, ma anche alla pace tra i popoli. Il lavoro intitolato L’uomo rappresenta quindi la sintesi di questo studio, l’origine e al tempo stesso il fine di un cammino in cui ognuno di noi può fare la propria parte.
Un lavoro che mi colpisce particolarmente è costituito dal modello architettonico della città di Gerusalemme, con i dettagli miniaturizzati e quel discreto rilievo che ci trasporta subito in un’atmosfera particolare e fuori dal tempo, come quando incontriamo nelle opere d’arte del passato, il modellino della città offerto a imperatori e signori.
Mi è già capitato di scrivere dei paesaggi “architettonici” realizzati da Elisabetta Necchio, delle sue visioni trasversali, delle vedute prospettiche articolate. Necchio era partita dall’architettura dei palazzi e delle chiese della sua città, Como, ma ora si misura con una terra carica di storia plurisecolare, a volte misteriosa, la città santa, la terra promessa. E lo fa con una sorta di bassorilievo monocromo avvolto dalla sabbia simbolica del deserto.
Il tema centrale del nucleo di lavori compresi tra il 2013 e il 2014 era la rappresentazione di spazi architettonici e paesaggi urbani con una silenziosa presenza umana. Una cattedrale sospesa nella neve, o due figure, due ombre, che apparivano da un pavimento geometrico a forma di celle di un alveare. Invece la rappresentazione di Gerusalemme oggi mi fa pensare ad un libro epico che considero una delle punte più alte dell’universo letterario, Il deserto dei Tartari, con il senso dell’attesa perenne, del mondo sospeso, della paura, dell’illusione.
Il mistero che evoca Qumram e la storia dei rotoli del Mar Morto riaffiora nelle pagine dei lavori di Elisabetta Necchio che mette in questa mostra la sua passione per la carta…e per il libro. E come è stato più volte detto la scrittura è da considerarsi il primo esempio della rappresentazione iconografica di concetti e cose, di luoghi e azioni, di pensieri e di regole. La Bibbia, il Corano, i testi della regola, aprono a mondi che oggi appaiono sempre più lontani, con le strumentalizzazioni politiche ed economiche che troppo spesso saltano alla ribalta delle nostre cronache nelle manifestazioni di inaccettabili atrocità.
Elisabetta Necchio sceglie la strada dell’evocazione per raccontare una terra ricchissima di fascino ma anche di contraddizioni. Sospende qualsiasi giudizio dedicandosi alla meditazione pittorica, e il risultato è di un’avvincente onestà intellettuale.
In questo affresco ricco di sfumature le opere Moschea e Mecca sono degli arabesque, delle decorazioni di parti architettoniche, delle astrazioni. Suggestivo è il gioco geometrico, ma anche la scelta del colore dal sabbia al nero. Anche in questi lavori le alternanze di luci ed ombre sono particolarmente interessanti.
Elisabetta Necchio, che affida alla carta la sua creatività, con la sua porosità e la sua tattilità, cerca e trova la luce in ogni suo lavoro, una luce naturale che percorre le superfici dando loro vitalità, vibrazioni. Questo effetto è ancora più interessante se pensiamo che questa ultima produzione appare sempre più materica e ricca.
Terre promesse è fondamentalmente un viaggio della speranza, è una città, Gerusalemme, precisa, ma è anche un luogo extrageografico, come luogo mentale.
Necchio abbraccia la strada dell’immaginazione per arrivare in questo luogo, e lo fa con i propri strumenti tecnici, sempre più affinati e con esiti di concreta maturità artistica.
Ogni sua mostra rappresenta un ciclo, un momento particolare, l’evoluzione naturale di un percorso che l’artista affronta sempre con un’immersione totale, quasi catartica, nella consapevolezza che la carta è “materia viva”, da trattare con cura e amore.
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