DI VITTORIA COEN
L’opera su carta ha, da sempre, per me, conservato una profonda e intima magia. Generalmente gli artisti che vi si accostano, o meglio, che l’affrontano, ricevono in cambio una poesia, un lirismo, che li differenzia da quelli che non la usano sistematicamente. Senza affrontare il tema dello schizzo, dell’album dei vari interpreti del Grand Tour, dell’universo della storia dell’incisione, parliamo proprio di un materiale che dal ready made di Schwitters alla Mail Art, ha costituito una possibile risposta alternativa alla perennità del marmo o del bronzo. L’inevitabile deperibilità della carta nei decenni passati, ha segnato una risposta culturale di rivolta alle logiche del mercato. La carta è delicata, va maneggiata con cura e rispetto quasi devozionali, per l’esposizione necessita di condizioni particolari, odia la luce violenta e diretta (lo sanno bene i conservatori che lavorano nei musei). Eppure questa delicatezza e poesia del materiale hanno fatto sì che si creassero intere collezioni di appassionati di opere su carta, veri e propri speleologi dell’animo umano e più intimo degli artisti.
Oggi noi siamo di fronte ad un’intera mostra di lavori realizzati con la carta ed interventi vari, di medie dimensioni e di una forza dirompente e al tempo stesso discreta, quasi sussurrata.
A volte i paesaggi “architettonici” realizzati da Elisabetta Necchio mi fanno pensare a certe inquadrature che fanno parte della fotografia e in generale della produzione cinematografica di Wim Wenders. L’angolazione da cui si parte è originale, particolare, insolita, e l’occhio cerca di catturare quello che al primo sguardo non appare subito. Parliamo di visioni trasversali, di vedute prospettiche articolate, che Necchio marca con autentico desiderio di tradurre i suoi pensieri in visioni precise di realtà. Una realtà immaginata? Una realtà veduta? Immaginata e veduta nel sogno?
La cattedrale sembra sospesa nella neve, o in un mare di nebbia di Friedrichiana memoria, mentre in un altro lavoro dal reticolato geometrico che ricorda le celle di un alveare appaiono due figure, due ombre. Architetture e sembianze umane emergono dalla materia vissuta e ripercorsa strato su strato, tra auto in sosta e passi nella notte. Il mondo di Necchio è un interessante collage di associazioni libere, poi riassemblate e infine ricomposte nello spazio della pittura, come spazio mentale.
Tema centrale di questo nucleo di lavori compresi tra il 2013 e il 2014 è la visione molteplice di spazi architettonici e paesaggi urbani in relazione con la presenza umana, una presenza che può essere parte delle esperienze personali dell’artista, così come può attingere da osservazioni e impressioni momentanee colte nella loro quotidianità.
La luce nei lavori dell’artista ha un ruolo fondamentale. E’ la luce che accende i soggetti, che enfatizza i particolari, che rende i bianchi cangianti e impreziositi da riverberi misteriosi. La luce non è legata alla tecnologica contemporaneità, ma si lega concettualmente alla luce della pittura come una sorta di disvelamento.
Almeno da Leonardo in poi la luce ha avuto un ruolo centrale nella ricerca, tanto da identificare quello o quell’altro artista dal suo approccio personale con questo elemento. La luce di Rembrandt, quella di Caravaggio, la luce di Cézanne, quella di Manet, per arrivare alle sperimentazioni degli Anni Sessanta con l’invenzione del neon ; Dan Flavin, Joseph Kosuth, e lo stesso Merz, per esempio, si servono del nuovo ritrovato per “racchiudere “ la luce nei loro percorsi ideologici e spaziali, e si arriva alle più recenti sperimentazioni che vedono la tecnologia al centro delle realizzazioni di vere e proprie installazioni di luce, come nel caso della mostra del 2003 alla Tate Modern di Londra di Olafur Eliasson, che tra effetti ottici e specchi circoscrive uno spazio in una luce perenne e irreale.
Elisabetta Necchio, pur essendo una giovane artista, declina altre necessità, si affida alla natura (la carta) e non alle tecnologie, e rifugge da qualsiasi pulsione verso la creazione di “effetti speciali”. Anche questa è una scelta coraggiosa e pure possibile nell’universo variegato e multiculturale dell’arte d’oggi. L’artista si riappropria di uno straordinario materiale che ha affascinato da sempre i creativi di tutte le epoche e di tutti i continenti.
Ma vi è anche un intrigante rapporto di causa/effetto, tra il supporto e l’intervento successivo, che determina il fluire delle immagini come in una serie di fotogrammi.
Necchio segue, senza inseguirla, la traccia dell’immaginazione. Svolge un percorso naturale, di causa in effetto, dunque, come di chi va scoprendo la propria verità nell’arte all’atto del suo farsi. Il racconto si carica di emozioni, e di mistero, in un passo nel buio che proietta un’ombra, in un silenzio spirituale di una città da vivere in sogno. Sembrano preannunciare la scena successiva questi lavori, che visti in sequenza potrebbero sembrare un’opera unica. Anniversario I, II, IV, V: l’evento può essere importante, ma è ancora più interessante l’aspetto evocativo, l’idea di un appuntamento virtuale, forse proprio con l’arte.
Rumori, Silenzi, Cupola, tramonto e vento – cose di Como, sono solo alcuni dei titoli di opere realizzate appositamente per questa mostra, la cui ricerca svela lo studio attento, quasi febbrile, della carta, appunto, non solo come supporto, ma soprattutto come parte integrante e imprescindibile nel lavoro.
La carta, nelle sue molteplici declinazioni, appare, quindi, come materia viva e vibrante, come elemento naturale e dunque vitale, in cui natura e architetture si fondono nella superficie vissuta e articolata, nelle sfumature cromatiche degli ocra, dei bianchi e dei blu; sono opere bidimensionali “da toccare, da respirare, da sentire”.
La carta lavorata a mano necessita di un processo lungo e paziente, che non prevede errori o “pentimenti” ed entra nel percorso narrativo dell’artista come una seconda pelle.
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